Sezione Velocipedisti
Un’affascinante sintesi dello sport ciclistico ai primordi ci viene dall’ormai introvabile volume del 1971, celebrativo dei 100 anni della Costanza, la società milanese meglio nota come Forza e Coraggio. Pioniere nel panorama associativo sportivo, il club frequentato da borghesi agiati già allora annotava, oltre alla sezione di ginnastica – in quel momento lo sport guida del panorama italiano – quella velocipedistica, di cui si annotano puntualmente gli sviluppi, spesso avventurosi.
Tutto muove dalle graduali innovazioni che avrebbero portato, lungo tutto l’Ottocento, all’assetto della bicicletta come oggi la conosciamo, che il Novecento avrebbe migliorato solo per la leggerezza dei materiali e l’avvento di alcuni accessori. Per il resto tutto si condensa in sei scoperte cruciali: l’innesto di un comando direzione sulla ruota anteriore liberata da quella posteriore con Drais, nel 1818; l’azionamento a pedali con il parigino Michaux nel 1855; i cerchioni in ferro con Meyer; telaio e catena di trasmissione posteriore con l’inglese John Starley nel 1880; l’applicazione delle camere d’aria alle ruote con lo scozzese Dunlop nel 1888 e il montaggio del telaio a rombo con l’inglese Humber nel 1895.
Nel frattempo, a Milano, il 17 marzo 1870, quindici soci davano vita al “Veloce Club Milano”. Il primo in Italia. Tre mesi più tardi inauguravano la sede sui Bastioni di Porta Tenaglia con annesso «maneggio» per le esercitazioni sul biciclo. II 18 dicembre dello stesso anno, sul percorso di 11 chilometri lungo i Bastioni milanesi, il nuovo club organizzava la sua prima corsa vinta da Giuseppe Pasta.
La Forza e Coraggio entrava in gioco, grazie al segretario Cesare Marelli, con la sezione velocipedistica, nel 1885.
Alcuni giovani soci si trasferirono dal Veloce Club, in particolare Romeo Crosti e Gilberto Marley, primi e secondi nella corsa Binasco-Pavia di Km. 32, disputatasi nel 1886.
Per gli allenamenti la Società metteva a disposizione i Giardini esterni alla Palestra: dalle ore 19 alle 21 di tutti i lunedì, mercoledì e venerdì. Fu decisa la sottoscrizione dell’abbonamento alla «Rivista Velocipedistica», fondata a Torino nel 1883 e diretta da Fenoglio e Viarigi, che riportava gare, concorrenti e classifiche.
A Milano, il 20 giugno 1886, la Società Lombarda dei Velocipedisti inaugurava un vasto ciclodromo: 500 metri di sviluppo, palchi elegantemente addobbati e coperti, in località San Rocco. La Forza e Coraggio vi coglie altri trionfi con Tarlarini, Marley, Colombo e Loretz. Sulla pista del Veloce Club, tra la via Vivaio e la Via Cappuccini, nel medesimo mese di luglio, sulla distanza di 7 chilometri da coprire sull’anello di 178 metri, vengono altre vittorie con Tarlarini, Romola Buni, Stanislao Parboni e il sempre più sicuro Marley.
La Forza e Coraggio non disponeva di sede propria: fruiva dei locali della Palestra di Corso Porta Romana concessi in affitto dal Comune. Per questo l’inaugurazione del sodalizio avvenne in Via Vivaio, grazie ai buoni rapporti con il Veloce Club. Il clou della giornata fu la gara di tandem misto: un cavaliere in compagnia di una signorina.
Nel 1887 si laureava campione sociale Umberto Travaini, l’omnium era vinto da Gilberto Marley e la gara Juniores vedeva prevalere Ettore Gnesutta sul validissimo Giuseppe Pasta.
Il 27 giugno 1888 Marley si aggiudicava il Campionato Italiano di resistenza (Km. 120) e l’anno dopo trionfava a Modena, Alessandria, Milano e Padova. I percorsi, a parte le gare di resistenza, erano di chilometraggio ridotto.
Il Comune di Milano, considerando il velocipede come strumento di divertimento ne aveva disciplinato e limitato l’uso in luogo pubblico per evitare incidenti. Aveva ad esempio interdetto il centro della città. Il Consiglio Comunale aveva disposto la tassa di Lire 12 per ogni velocipede, 5 lire per quelli a noleggio.
Venne poi il trotter, nel 1892, un’area polifunzionale. E ancora, la febbre per le due ruote coinvolgeva l’Arena civica, che nel marzo 1893 ospitava le corse velocipedistiche indette dalla “Pro Patria” su un anello di 400 metri in legno.
Milano era allora una capitale dello sport ciclistico, vantava ben tre piste: quella del Veloce Club, dell’Arena e del Trotter. E toccò proprio alla Forza e Coraggio organizzare al Trotter, nel 1893, le corse Nazionali ed Internazionali. I risultati di maggiore spicco vennero da Buni «le petit noir» vincitore del «Grande Internazionale Bicicletti» sui validi e temibilissimi Medinger e Cassignard, e di Luigi Colombo (campione della Forza e Coraggio) trionfatore della 100 chilometri in pista con l’ottimo tempo di 3 ore, 9′ 51″ e 6 decimi: una media sui 33 orari che suscitò negli spettatori un’entusiastica invasione del circuito al termine della gara.
Mentre l’U.V.I. proponeva addirittura una corsa di resistenza sulla distanza di 500 chilometri (Milano-Monaco di Baviera) da percorrere nel tempo massimo di 31 ore, il Trotter Italiano organizzava il Campionato dei Rioni, valido per scegliere i migliori corridori di ogni sestiere cittadino.
Milano annoverava cinque società ciclistiche (Veloce Club, La Milano, Minerva, Pro Patria e Forza e Coraggio). La Ditta Pirelli, che dal 1891 costruiva in Italia, come la Michelin in Francia, le gomme «smontabili» affidava alla Forza e Coraggio l’organizzazione di una corsa popolare di resistenza di 228 chilometri. Con partenza da Milano toccando Lodi, Cremona, Brescia e ritorno a Milano, I concorrenti erano ammessi alla spartizione di cospicui premi.
Ancora nel 1895 la Soc. Ginnastica Pro Patria organizzava il Campionato Italiano velocità professionisti e di resistenza dilettanti. Fu un vero trionfo, un vittorioso monologo per la “Forza e Coraggio” che con Marley, Luigi Cantù, Alessandro Ferrario e Giuseppe Singrossi (il futuro campione di velocità professionisti 1900) battevano quotati campioni come Buni, Pasta e Ruscelli. Il quotidiano «La Sera» descrisse la competizione definendola meravigliosa.
All’indifferenza, lo scherno e la derisione riservati dal pubblico ai primi velocipedisti si era sostituito un tifo frenetico, ai fischi tributati alle coraggiose comparse in pubblico degli enormi bicicli erano venuti, copiosi, gli applausi alle veloci due ruote gommate.
IN OCCASIONE DEI 100 ANNI UNIVERSAL PREMIATI I CICLOSTORICI LOMBARDI
Durante una magnifica serata, andata in scena il 30 ottobre nella straordinaria cornice del Belvedere di Palazzo Lombardia, promossa dalla famiglia Pietra in occasione dei 100 anni della Universal, l’azienda a lungo leader nel mercato dei freni per biciclette, sono stati premiati i protagonisti più assidui delle 10 ciclostoriche, che hanno parteecipato a non meno di cinque prove che si sono disputate quest’anno in Lombardia. Ci riferiamo a La Crennese, La Ducale, La Tra Borghi e Castelli, La Colli Brianzoli, La Franzacurta, L’Ambrosiana, La Ghisallo, La Belvedere, La Viscontea, La Lacustre.
Ha fatto gli onori di casa Alan Rizzi, sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia, che ha premiato, unitamente a Giancarlo, Marina e Maurizio Pietra i cicloamatori vintage, ben rappresentati dal Team Polizia, dalla squadra Universal, rigorosamente con le maglie di appartenenza, oltre a una quarantina di fedelissimi amatori del ciclismo d’antan.
Padrino ideale di ogni ciclostorica in quanto promotore e artefice di L’Eroica, si è ben espresso Giancarlo Brocci che ha raccontato la genesi della sua creatura, nata negli anni 90 per preservare i meravigliosi sterrati del Chianti senese, sino a farli valorizzare come patrimonio dell’Unesco, e soprattutto il ciclismo della fatica, senza obbligo di alcuna graduatoria, cioè il più sano degli agonismi.
L’ingegnere Fausto Pella presidente delle 10 Ciclostoriche di Lombardia (nel 2020 diventeranno 11, in una logica di corretto sviluppo, con l’aggiunta di Oltre Pedalata, prevista di sabato, al contrario delle altre tutte domenicali) ha riassunto il movimento dei 1.500 amatori che hanno frequentate a più riprese le varie prove, distinguendosi per correttezza e spirito partecipativo, nel rispetto delle regole.
La serata era iniziata con una visita, guidata da Giancarlo Pietra, alla mostra “100 anni di Freni Universal”, ospitata allo Spazio Mostre N3 e andata in scena sino a domenica 3 novembre. La mostra, realizzata dall’architetto Federico Colletta con i colleghi di CO3 progetti, ha avuto un lusinghiero successo con oltre diecimila visitatori nelle cinque settimane di esposizione. La mostra vantava molti preziosi oggetti: dalla bicicletta di Bartali del Tour 1948, gentilmente concessa dal Museo del Ghisallo, a tanti pezzi unici della famiglia Pietra come le foto delle imprese storiche e dei più grandi campioni, di freni e modelli di freni, di disegni tecnici, brevetti e articoli di giornale dell’epoca.
Universal, cento anni in bici
A Milano, in zona Sempione, in un grande scantinato polveroso e male illuminato, sosta un mondo di affascinanti ricordi: c’è una cassaforte del primo Novecento che risale agli albori della “Fratelli Pietra”, fotografie di corsa, di esposizioni, di famiglia. E ancora giornali d’epoca, coccarde, coppe, targhe smaltate, provini per pubblicità, prototipi in acciaio, in alluminio, in titanio.
In questo antro delle meraviglie figurano i settant’anni di vita della “Universal”, azienda creata, portata al successo e poi chiusa a inizio anni Novanta per l’impossibilità di competere sul mercato. Ne sono stati artefici i fratelli Pietra, Eugenio e Carlo; a seguire il figlio di quest’ultimo, Luciano e poi i nipoti Maurizio e Giancarlo, che ne preservano la memoria. Per decenni – quelli d’oro del ciclismo – i Pietra sono stati dominatori incontrastati nel comparto dei freni
«Oltre alle fotografie dei cataloghi di ogni tempo», racconta Giancarlo Pietra, «abbiamo tutti i calchi originali: ovvero le incisioni fatte dai maestri di bulino e poi applicate su legno di rosa, un legno durissimo e considerato il più adatto per la pressione cui doveva essere esercitato per creare le grafiche in tipografia».
Il marchio Universal si deve alla moda dell’epoca – che suggeriva nomi altisonanti – e ai cugini di Eugenio e Carlo che avevano avviato una fabbrica di fanalini ribattezzandola “Mondial”. La fondazione risale al 1919. Prima di allora, come “Fratelli Pietra”, si erano occupati di minuteria, di forcelle per moto, di forniture belliche e altro, anche le automobiline in ferro per bambini. «In ogni caso il ciclismo» chiarisce Pietra «faceva parte del DNA di famiglia. Eravamo vicini agli Azzini, a Ugo Bianchi che consigliò al nonno e allo zio di interessarsi all’industria ciclistica. Nei freni ci siamo specializzati a cavallo tra gli anni Venti e Trenta per contrastare il successo dei freni Bowden con un prodotto tutto italiano».
L’attività di famiglia è testimoniata da scatole di imballo originali, prototipi, matrici, bozzetti di locandine e pubblicità sulle riviste o sui programmi ufficiali, come ad esempio quello relativo all’inaugurazione del velodromo Vigorelli, nel 1935. «Abbiamo tenuto quasi tutto, per questo ora posso volentieri aiutare gli appassionati a recuperare pattini o componenti dei freni del tutto originali a quelli utilizzati sulle bici che vogliono restaurare o utilizzare per le ciclostoriche. Vedevo online dei prezzi esorbitanti per prodotti spesso contraffatti. Avendo tutto in casa perché non venire incontro a questo ritorno di fiamma per le bici d’epoca? È un modo per sentirmi ancora parte di un mondo che ho amato».
Universal ha il monopolio del settore sino al 1968, quando terminano le sponsorizzazioni delle squadre. «Quell’epoca d’oro fu spezzata da Campagnolo, sul mercato con un “gruppo” che prevedeva anche l’impianto frenante. A quel punto le squadre decisero di fare a meno dei nostri freni in favore dei loro. Abbiamo tentato per qualche anno di fornire Campagnolo sulle bici pur di continuare ad avere i gruppi sportivi come la Dreher o la Viscontea. Ma il gioco non valeva la candela, era antieconomico. Avevamo anche in animo di uscire con un nostro “gruppo”, per cercare di frenare l’avanzata del nostro concorrente ma i distributori non erano dalla nostra parte e tutto rimase nel cassetto. Poi è arrivata Shimano e si è imposta rapidamente, anche in rapporto a Campagnolo. E così, dopo una lenta agonia negli anni Ottanta, abbiamo chiuso l’attività nel 1992».
«Ora grazie alle ciclostoriche abbiamo rimesso a nuovo uno dei furgoni che mandavamo in carovana al Giro d’Italia (un altro è in fase di restauro, ndr) e mi diverto a posare nelle foto con i ciclisti in maglia Universal. Ho anche messo in palio qualche coppa per chi partecipa a tre ciclostoriche l’anno con la nostra maglia dell’epoca, o una riproduzione. Poi ci sono le iniziative per i 100 anni del marchio Universal: una mostra per esporre i nostri tesori, per testimoniare come si lavorava una volta, prima di tutto. E poi perché è bene catalogare quanto ho in magazzino: ho delle prove di piega, completamente fatte a mano. Ho ancora dei ferri da trancia. Di ogni modello c’erano due, tre versioni. Alto dietro, basso davanti… Mi piacerebbe raccontare la storia pubblicitaria dell’azienda. O il packaging: ho tutte, ma proprio tutte, le scatole dal 1940 e alcuni esemplari degli anni Trenta. E poi, avendo i torni per la viteria, stiamo attualmente studiando quanti terminali abbiamo fatto nell’arco della nostra storia. In acciaio, alluminio, ottone, tondo, piatto, bombato, a punta… E poi la storia dei pattini, anche qui si apre un mondo…»
Federico Meda
Rapha Mondial: Carlo Galetti e la ripresa di Roma
Lo storico britannico Herbie Sykes ci guida in un viaggio nel ciclismo eroico
Nell’estate del 1918 la guerra aveva quasi ultimato il suo corso. Un’ondata di entusiasmo avvolgeva la penisola mentre gli italiani guardavano avanti, più che mai, alla commemorazione del 20 settembre. In quel giorno del 1870 l’esercito sabaudo aveva finalmente sottratto Roma allo Stato Pontificio, completando il grande disegno del Risorgimento. L’Italia tutta era finalmente unificata e la Città Eterna ne era la capitale. Milano era già la potenza economica del paese e guidava anche gli eventi sportivi, più popolari che mai. Un gruppo di espatriati inglesi aveva introdotto il calcio in Liguria, Piemonte e Lombardia, ma niente era più veloce o più esaltante delle corse in bicicletta. La pista, ben più spettacolare, inizialmente aveva incontrato la maggiore popolarità, poi le corse su strada avevano iniziato a imporsi, con distanze da capogiro, e l’industria dei giornali in rapida crescita ne riportavano ampiamente i dettagli.
Il nord aveva allora tassi di alfabetizzazione più alti, ma anche più soldi e strade migliori su cui pedalare. Eventi come la Milano-Sanremo e i Giri di Lombardia e Piemonte cominciano allora ad attirare l’attenzione del pubblico, e con il boom delle biciclette sempre più persone si identificano con i corridori. Il Giro d’Italia tornerà dopo la Grande Guerra, ma gli organizzatori della Gazzetta dello Sport propongono un preliminare moto importante e significativo.
Molti dei ciclisti italiani erano stati arruolati nei Bersaglieri, i reggimenti in bicicletta. Avevano cavalcato biciclette pieghevoli che, a pieno carico, pesavano 30 chilogrammi, ma molti di loro non erano tornati a casa dal fronte. Tra loro il 29enne Carlo Oriani, vincitore del Giro del 1913. Si diceva che avesse contratto la polmonite nel tentativo di salvare un compagno soccorso nel fiume Tagliamento durante la ritirata da Caporetto, anche se probabilmente era stato ucciso dai gas. L’Italia aveva necessità di gloriosi martiri.
Chi era sopravvissuto alla Guerra si sarebbe rifatto grazie a una corsa a due frazioni, la prima da Milano a Bologna, poi da Bologna a Roma. Innanzitutto attraverso le fertili pianure padane, con una spettacolare volata di gruppo davanti a un’enorme folla all’ippodromo di Bologna. Un po’ di riposo prima di partire per una biblica escursione a sud-ovest di 453 chilometri lungo la dorsale del Bel Paese. Alla luce della luna attraverso la possente cresta appenninica, scavalcando i passi della Futa e della Raticosa, poi a sud attraverso la maestosa distesa della Toscana. Gli atleti si sarebbero rifocillati a Firenze intorno alla mezzanotte, per poi addentrarsi nella verdeggiante e sognante Umbria. Nel caldo afoso, tardo-estivo del Lazio, la loro odissea si completa. Alla fine, gloriosamente e simbolicamente, l’arrivo nel grande stadio della Capitale. Lì si sarebbero abbandonati ad un pubblico estatico e alla più grande festa degli ultimi anni.
Un ritorno a casa per i 51 partenti della corsa che prevedeva un cast stellare. C’era Lauro Bordin, autore di una memorabile, inutile fuga di 380 chilometri durante l’ultimo Giro prebellico. Il piccolo bolognese Alfonso Calzolari, vincitore di quello stesso Giro, avrebbe fatto l’impossibile per non far vincere il nemico giurato Ezio Corlaita di cui si diceva che avesse pagato una maga per una fattura contro Calzolari, peraltro non andata a buon fine. C’era anche un nuovo arrivato, un torinese di nome Bartolomeo Aimo. Era stato un autista durante la guerra, e aveva trasportato anche un giornalista americano, Ernest Hemingway, un grande appassionato di corse in bicicletta. Aimo non poteva saperlo, ma dieci anni dopo sarebbe stato immortalato in “Addio alle armi”. La mascotte del gruppo era il diciassettenne Maurice Garrin, la novità Alfonsina Strada, una casalinga bolognese con la costituzione di un rinoceronte. Il favorito era il celebrato campione nazionale, Costante Girardengo.
Il più grande applauso, tuttavia, sarebbe toccato a un figliol prodigo del ciclismo italiano, lo “scoiattolo” Carlo Galetti, vincitore dei Giri 1910, ’11 e ’12, un indomito ciclista. La stampa gli aveva sempre preferito il rivale, “Il re del fango” Luigi Ganna, e aveva spesso dipinto Galetti come un succhiaruote. Lo “scoiattolo del Naviglio”, tuttavia, non aveva bisogno dell’aiuto della stampa, anche perché faceva da anni, e con successo, il tipografo. Sua la prima biografia sportiva di un corridore ciclista, lui stesso, pubblicato in Italia.
Galetti aveva 36 anni, ma non si sentiva un corridore sul viale del tramonto. Così, quando aveva sentito parlare della gran fondo Milano-Roma, aveva deciso di riproporre le sue doti di fondista. Fece di necessità virtù, e la stampa dovette ricredersi.
L’unico straniero, il francese Marcel Godivier, aveva battuto Girardengo nello sprint di Bologna. Girardengo pronosticò che Godivier non sarebbe sopravvissuto ai successivi 450 chilometri, a 20 ore di continui saliscendi. Girardengo era un grande stratega e, come tutti i migliori ciclisti del tempo, sapeva di chimica. Conosceva le sostanze che esaltavano le performance di lunga durata, compreso il sangue di vitello e le quantità industriali di stricnina. Tra i prodotti più efficaci, a detta dei corridori dell’epoca, il nettare assoluto era il cognac. Il suo impiego con giudizio era spesso determinante per l’esito delle gare, ma nel caso Godivier esagerò. Era ancora lontano da Roma quando inghiottì l’ultima goccia di cognac, in prossimità della terribile salita di Otricoli. Su quell’ascesa Godivier cominciò a zigzagare prima di crollare, in modo teatrale e definitivo, sul ciglio della strada. Au revoir Godivier … Nessun problema per il potente Carlo Galetti, vista l’andatura sostenuta nel finale. Pareva ringiovanito di parecchi anni, capace di annientare gli avversari nella polvere di quelle strade impossibili. L’ultimo avversario cedette a circa 75 chilometri dal traguardo, consentendogli una marcia trionfale.
Il resto è storia, i sogni ciclistici di un atleta, Carlo Galetti, quel giorno del 1918 si concretizzarono. Tutto questo in un tiepido pomeriggio di settembre, intorno alle sedici, quando il piccolo eroe entrò in Roma nel tripudio della folla. Carlo Galetti, un ragazzo senza età. E che ragazzo, e che gara di bici!